un uomo

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  1. pïnkman
     
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    «Non lasciatevi intruppare dai dogmi, dalle uniformi, dalle dottrine, non lasciatevi turlupinare da chi vi comanda, da chi vi promette, da chi vi spaventa, da chi vuole sostituire un padrone con un nuovo padrone, non siate gregge perdio, non riparatevi sotto l'ombrello delle colpe altrui, lottate, ragionate col vostro cervello, ricordate che ciascuno è qualcuno, un individuo prezioso, responsabile, artefice di se stesso, difendetelo il vostro io, nocciolo di ogni libertà, la libertà è un dovere, prima che un diritto è un dovere».


    «Vive, vive. Vive, vive. Vive, vive. Anche dopo che la piovra t'aveva dimenticato tornando ad essere gregge che va dove vuole chi comanda e chi promette e chi spaventa, anche dopo che la tua sconfitta s'era cristallizzata nel perpetuo trionfo di chi comanda, di chi promette, di chi spaventa, esso continuava: fantasma attaccato alle pareti del mio cervello, annidato tra le pieghe della mia coscienza, irresistibile perfino se gli opponevo la logica o il buonsenso o il cinismo. Sicchè, a un certo punto, cominciai a dicrmi che forse era vero. E, se non era vero, bisognava fare qualcosa perchè sembrasse vero o diventasse vero».


    «La solita fiaba dell'eroe che si batte da solo, preso a calci, vilipeso, incompreso. La solita storia dell'uomo che rifiuta di piegarsi alle chiese, alle paure, alle mode, agli schemi ideologici, ai principii assoluti da qualsiasi parte vengano, di qualsiasi colore si vestano, e predica la libertà. La solita tragedia dell'individuo che non si adegua, che non si rassegna, che pensa con la propria testa, e per questo muore ucciso da tutti. Eccola, e tu mio unico interlocutore possibile, laggiù sottoterra, mentre l'orologio senza lancette segna il cammino della memoria».


    «Chi si rassegna non vive: sopravvive».

    (Gheorgazis.)


    «Se guardi un nemico in faccia e ti accorgi che malgrado tutto è un uomo simile a te, dimentichi chi è e cosa rappresenta: ucciderlo diventa difficile. Meglio illudersi di uccidere un'automobile».


    «La vita. Che cosa assurda la vita».


    [Alla Corte Marziale] «Chiaro che accetto l'accusa. Non l'ho mai respinta, io. Né durante l'interrogatorio né dinanzi a voi. E ora ripeto con orgoglio: sì, ho sistemato io gli esplosivi, ho fatto saltare io le due mine. Ciò allo scopo di uccidere colui che chiamate presidente. E mi dolgo soltanto di non esser riuscito ad ucciderlo. Da tre mesi quella è la mia pena più grande, da tre mesi mi chiedo con dolore dove ho sbagliato e darei l'anima per tornare indietro, riuscirvi. Quindi non è l'accusa in sé che provoca la mia indignazione: è il fatto che attraverso quei fogli si tenti di infangarmi dichiarando che sarei stato io a coinvolgere gli altri imputati, a fare i nomi che sono stati pronunciati in quest'aula ».

    (Alekos Panagulis.)


    [Alla Corte Marziale] «Fui sempre, e sono, un combattente che lotta per una Grecia migliore, un domani migliore, una società insomma che creda nell'Uomo. E credere nell'Uomo significa credere nella sua libertà. Libertà di pensiero, di parola, di critica, di opposizione: tutto ciò che il golpe fascista di Papadopulos ha eliminato un anno fa».

    (Alekos Panagulis.)


    [Alla Corte Marziale] «Ma quando un governo si impone con la violenza e con la violenza impedisce ai cittadini di esprimersi, di opporsi, addirittura di pensare, allora ricorrere alla violenza è una necessità».

    (Alekos Panagulis.)


    [Alla Corte Marziale] «Conoscevo i pericoli che mi attendevano. Proprio come, ora, conosco la pena che mi infliggerete. Io lo so, infatti, che mi condannerete a morte. Ma non mi tiro indietro, signori della Corte marziale. E anzi accetto fin d'ora questa condanna. Perchè il canto del cigno di un vero combattente è il rantolo che egli emette colpito dal plotone di esecuzione di una tirannia».

    (Alekos Panagulis.)


    «Ti sentivi stranamente sollevato, mi avresti detto anni dopo, quasi contento, e non perchè tu fossi stanco di vivere ma perchè eri stanco di soffrire».

    (Alekos Panagulis.)


    «È una cosa terribile ammazzare, lo so, ma nelle tirannie diventa un diritto, anzi un dovere. La libertà è un dovere prima che un diritto».

    (Alekos Panagulis.)


    «Gli esseri umani son ben bizzarri: finchè ti aspetti qualcosa da loro non ti danno nulla, quando non ti aspetti più nulla ti danno tutto».


    «La fiaba dell'eroe non si esaurisce col gran gesto che lo rivela al mondo. Sia nelle leggende che nella vita, il gran gesto non costituisce che l'inizio dell'avventura, l'avvio della missione. Ad esso segue il periodo delle grandi prove, poi il ritorno al villaggio o alla normalità, poi la sfida finale dietro cui si nasconde l'insidia della morte sempre evitata. Il periodo delle grandi prove è il più lungo, forse il più difficile. E lo è perché, durante quello, l'eroe si trova completamente abbandonato a se stesso, irresistibilmente esposto alla tentazione di arrendersi, e tutto congiura contro di lui: l'oblio degli altri, la solitudine esasperata, il rinnovarsi monotono delle sofferenze. Ma guai se egli non supera quel secondo esame, guai se non resiste, se cede: il gran gesto che lo rivelò diventa inutile e la missione fallisce».


    «E' così difficile riabituarsi all'idea di vivere quando ci si è ormai rassegnati all'idea di morire».


    «Domani non è un altro giorno quando l'esistenza non ha nulla di umano».


    «Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie, lo si fa per principio, per se stessi, per la propria dignità».


    «Un uomo che non parla a nessuno e a cui nessuno parla è come un pozzo che nessuna sorgente alimenta: a poco a poco l'acqua che vi stagna imputridisce ed evapora».


    «Più una persona ti piaceva, infatti, più avevi paura d'esser imbrogliato o di lasciarti andare, e la facevi soffrire».


    «Il vero eroe non si arrende mai, a distinguerlo dagli altri non è il gran gesto iniziale o la fierezza con cui affronta le torture e la morte ma la costanza con cui si ripete, la pazienza con cui subisce e reagisce, l'orgoglio con cui nasconde le sue sofferenze e le ributta in faccia a chi gliele impone. Non rassegnarsi è il suo segreto, non considerarsi vittima, non mostrare agli altri tristezza o disperazione. E, all'occorrenza, ricorrere all'arma dell'ironia e della beffa: ovvie alleate di un uomo in catene».


    «L'abitudine è la più infame delle malattie perché ci fa accettare qualsiasi disgrazia, qualsiasi dolore, qualsiasi morte. Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portar le catene, a subire ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto. L'abitudine è il più spietato dei veleni perchè entra in noi lentamente, silenziosamente, cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza, e quando scopriamo d'averla addosso ogni fibra di noi s'è adeguata, ogni gesto s'è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci».


    «Un uomo è un uomo, e un uomo è fatto di generosità e di egoismi, di coraggio e di debolezze, di coerenze e di incoerenze: se una metà di te sperava che non accadesse, l'altra metà lo desiderava fino allo spasimo».


    «L'amara scoperta che Dio non esiste ha ucciso la parola destino. Ma negare il destino è arroganza, affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza è follia: se neghi il destino la vita diventa una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e avrebbe potuto essere, un rimorso di ciò che non è fatto e avremmo potuto fare, e si spreca il presente rendendo un'altra occasione perduta».


    «S'agapò tora ke tha s'agapò pantote». «Cosa significa?». «Significa: ti amo ora e ti amerò sempre. Ripetilo». Lo ripeto sottovoce: «E se non fosse così?». «Sarà così». Tento un'ultima vana difesa: «Niente dura per sempre, Alekos». Quando tu sarai vecchio e...». «Io non sarò mai vecchio». «Sì che lo sarai. Un celebre vecchio coi baffi bianchi». «Io non avrò mai i baffi bianchi. Nemmeno grigi». «Li tingerai?». «No, morirò molto prima. E allora sì che dovrai amarmi per sempre».


    «Perchè un uomo che è stato condannato a morte, che ha vissuto tre giorni e tre notti aspettando la morte, non sarà mai più lo stesso. Si porterà sempre la morte addosso come una seconda pelle, un desiderio insoddisfatto. Continuerà sempre a inseguirla, sognarla, magari ricorrendo al pretesto di nobili cause, doveri. Né troverà pace finchè non l'avrà raggiunta».

    (Alekos Panagulis.)


    «C'era un demone in quella voce, in quegli occhi: una passione lucida, fredda, incontrollabile, da ossesso che in nome della sua fede può commettere qualsiasi assurdità, rovinare la propria vita e quella degli altri, sacrificarvi i propri sentimenti e i sentimenti degli altri, la propria intelligenza e l'intelligenza degli altri. Ma le tue parole chiudevano la più straordinaria dichiarazione d'amore che una creatura potesse ricevere. Valevano mille abbracci in un letto, mille notti d'incanto, mille piante di gelsomino, mille s'agapò-tora-ke-tha-s'agapò-pantote. E il dinosauro che la notte prima avevo visto urlare, avanzare nelle foreste della preistoria calpestando alberi come fili d'erba non era un dinosauro: era un uomo. Un uomo solo, per giunta. Così solo che negarglisi sarebbe stato infame».


    «Sei pazzo». «Forse. Ma sono i pazzi che fanno la storia, non è la logica che fa la storia. Se ci fermassimo a considerare ciò che ha buon senso e ciò che non lo ha, ciò che è possibile e ciò che non lo è, la terra smetterebbe di girare. E la vita perderebbe il suo scopo».


    «La libertà non ha patria».

    (Alekos Panagulis.)


    «L'aspetto della saggezza non è cupo e tetro, non è pensieroso, è ilare e pieno di gioia. Il fine e il compimento della sapienza stanno nella giocosità felice».

    (Alekos Panagulis.)


    «L'amore non è metter catene alla gente che vuole battersi e che è pronta a morire per questo, l'amore è lasciarla morire nel modo che ha scelto. Ecco un'altra verità che non riesci a comprendere».

    (Alekos Panagulis.)


    «Morto un tiranno se ne fa un altro, e spesso i futuri tiranni sono proprio coloro che hanno sparato. No, non è seminando cadaveri che si rende il mondo un po' più sopportabile. E' con le idee! Le vere bombe sono le idee!».

    (Alekos Panagulis.)


    «Perchè il mondo non è un concetto astratto: il mondo sono io, sei tu, è lui. E se non cambio io, se non cambi tu, se non cambia lui, separatamente, individualmente, di propria iniziativa, non cambia nulla e si resta schiavi».


    «Nella fiaba dell'eroe è il ritorno al villaggio che giustifica le pene sofferte e le imprese compiute nel regno dell'impossibile: senza ritorno la sua lunga assenza perderebbe ogni significato. Però il ritorno è anche l'esperienza più amara che egli deve affrontare, un dolore che lo strazia più di quanto lo straziarono le battaglie sostenute nel priodo delle grandi prove, e non solo perché fino alle porte del villaggio egli è avversato dagli dèi che non si stancano di collaudarlo, di tormentarlo, ma perché rientrando tra i comuni mortali egli deve subire la loro ingratitudine, la loro indifferenza, la loro cecità».


    «Il popolo! Il buon popolo che non ha mai colpa in quanto è povero ignorante innocente! Il buon popolo che va sempre assolto perché è sfruttato manipolato oppresso! Come se gli eserciti fossero composti solo da generali e da colonelli! Come se a fare la guerra e a sparare sugli inermi e a distruggere le città fossero i capi di Stao maggiore e basta! Come se i soldati del plotone di esecuzione che doveva fucilarmi non fossero stati figli del popolo! Come se quelli che mi torturavano non fossero stati figli del popolo! [...] Come se ad accettare i re sul trono non fosse il popolo, come se a inchinarsi ai tiranni non fosse il popolo, come se ad eleggere i Nixon non fosse il popolo, come se a votare pei padroni non fosse il popolo! [...] Come se la libertà si potesse assassinare senza il consenso del popolo, senza la vigliaccheria del popolo, senza il silenzio del popolo! Cosa vuol dire popolo?!? Chi è il popolo?!? Sono io il popolo! Sono i pochi che lottano e disubbidiscono, il popolo! Loro non sono popolo! Sono gregge, gregge, gregge!».

    (Alekos Panagulis.)


    «Dire che il popolo è sempre vittima, sempre innocente, è un'ipocrisia e una menzogna e un insulto alla dignità di ogni uomo, di ogni donna, di ogni persona. Un popolo è fatto di uomini, donne, persone, ciascuna di queste persone ha il dovere di scegliere e decidere per se stessa; e non si cessa di scegliere, di decidere, perché non si è né generali né ricchi né potenti».

    (Alekos Panagulis.)


    «Ci si dimentica sempre che un eroe è un uomo, soltanto un uomo, e che resistere a una tirannia, subire sevizie, languire per anni in una cella senz'aria né luce è a volte più facile che battersi nell'equivoco e nelle lusinghe della normalità».


    «Nei piazzali Loreto i Mussolini si appendono subito o mai più. Se in tempo di dittatura il tirannicidio è un dovere, in tempo di democrazia il perdono è una necessità. In tempo di democrazia la giustizia non si fa scavando le tombe».

    (Alekos Panagulis.)


    «Negli abbracci forsennati o dolcissimi non era il tuo corpo che cercavo bensì la tua anima, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti, i tuoi sogni, le tue poesie. E forse è vero che quasi mai l'amore ha per oggetto un corpo, spesso si sceglie o si accetta una persona per la malìa inesplicabile con la quale essa ci investe, o per ciò che essa rappresenta ai nostri occhi, alle nostre convinzioni, alla nostra morale; però il veicolo di un rapporto amoroso rimane il corpo e, se quello non ti seduce, qualcos'altro deve pur sedurti. Il carattere, ad esempio, il modo di vivere o di comportarsi. E col tempo avevo scoperto che neanche il tuo carattere mi piaceva molto. [...] Ma allora perché avevo avuto quell'impulso di correrti dietro, di abbracciarti, sentire i tuoi baffi contro la mia guancia, perché ora sentivo il bisogno di raschiarmi la gola e ricacciare indietro le lacrime?».


    «Forse non ero innamorata di te, o non volevo esserlo, forse non ero gelosa di te, o non volevo esserlo, forse mi ero detta un mucchio di verità o menzogne, ma una cosa era certa: ti amavo come non avevo mai amato una creatura al mondo, come non avrei mai amato nessuno. Una volta avevo scritto che l’amore non esiste, e se esiste è un imbroglio: che significa amare? Significava ciò che ora provavo a immaginarti impietrito, perdio, con lo sguardo di un cane preso a calci perché ha fatto la pipì sul tappeto, perdio! Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto di non sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo [...] E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. Ne facevi parte quanto il mio respiro, le mie mani, il mio cervello, e rinunciare a te era rinunciare a me stessa, ai miei sogni che erano i tuoi sogni, alle tue illusioni che erano le mie illusioni, alle tue speranze che erano le mie speranze, alla vita! E l’amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo indicare tutti i segni, i fenomeni. Se parlavo di te con gente che non ti conosceva o alla quale non interessavi, mi affannavo a spiegare quanto tu fossi straordinario e geniale e grande; se passavo davanti a un negozio di cravatte e camicie mi fermato d’istinto a cercare la cravatta che ti sarebbe piaciuta, la camicia che sarebbe andata d’accordo con una certa giacca; se mangiavo al ristorante sceglievo senza accorgermene i piatti che tu preferivi e non che io preferivo; se leggevo il giornale notavo sempre la notizia che a te avrebbe interessato di più, la ritagliavo e te la spedivo; se mi svegliavi nel cuore della notte con un desiderio o una telefonata, mi fingevo più desta di un fringuello che canta al mattino».


    «Ma un amore simile non era neanche un cancro! Un cancro. Come un cancro che a poco a poco invade gli organi col suo moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresce più divieni cosciente del fatto che nessuna medicina può arrestarlo, nessun intervento chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quand’era un granellino di sabbia, un chicco di riso, una voce che grida egò s’agapò, un amplesso mentre il vento fruscia tra i rami d’olivo, ora invece non è possibile perché ti ruba ogni organo, ogni tessuto, ti divora al punto che non sei più te stessama un impasto fuso con lui, un unico magma che può disfarsi solo con la morte, la sua morte che sarebbe anche la tua morte, così tu mi avevi invaso e mi stavi divorando, ammazzando».


    «Il cancro aveva proseguito il suo corso per dimostrarmi che amare significa soffrire, che l’unico modo per non soffrire è non amare, che nei casi in cui non puoi fare a meno di amare sei destinato a soccombere».


    «L'incontro di due solitudini è anche l'incontro di due immaginazioni e la nostra fantasia sapeva riempire ogni silenzio, ogni vuoto».


    «Il destino è un fiume che nessuna diga arresta mentre fluisce al mare. Non dipende da noi. L'unica cosa che dipende da noi è il modo di navigarlo, combattere le sue correnti, per non lasciarsi trasportare come un tronco divelto».


    «Non piangere, Alekos. Perché piangi?». «Perché ho sbagliato tutto. Mi sono fidato degli uomini, ho sbagliato tutto. Ho creduto che agli uomini importasse la verità, la libertà, la giustizia. Ho sbagliato tutto. Ho creduto che capissero. Ho sbagliato tutto. A cosa serve soffrire, battersi, se la gente non capisce, se alla gente non importa? Ho sbagliato tutto».


    «Perché soffrire, allora, perché lottare, perché rischiare d'essere investiti dalla raffica che parte dalla montagna e ti butta laggiù in fondo al pozzo tra i pesci? Ma perché è l'unico modo di esistere quando sei un uomo, un donna, una persona non una pecora del gregge, perdio! Se un uomo è un uomo, non una pecora del gregge, v'è in lui un istinto di sopravvivenza che lo induce a battersi anche se capisce di battersi a vuoto, anche se sa di perdere: don Chisciotte che si lancia contro i mulini a vento senza curarsi d'essere solo e anzi fiero d'essere solo. E non ha importanza che egli agisca per se stesso o per l'umanità, credendo al popolo o non credendoci, non ha importanza che il suo sacrificio abbia o non abbia risultati: finché lotta e nel momento in cui soccombe fisicamente è lui il Popolo, è lui l'Umanità. E magari un risultato esiste: sta nel fatto che egli si allontani dal branco, che rifiuti di appartenere al fiume di lana, che turbi il gregge per un'ora o un giorno. A volte basta che un uomo, una donna, si allontanino dal gregge perché il gregge si sparpagli un poco, perché il fiume di lana interrompa il suo fluire lungo il sentiero tracciato dalla montagna».


    «V'è una misteriosa espressione sul volto di quelli che sanno di andare a morire, un'ombra che si condensa negli occhi e che si trasmette nei gesti. La vedi ad esempio nei malati che lasciano l'ospedale per spengersi nel loro letto, o nei soldati che partono pe un combattimento da cui non si torna. E lì per lì è difficile metterla a fuoco perchè più che vederla la senti: soltanto dopo la morte, nel ricordo, essa t'appare nitida come una fotografia ben stampata, e di colpo capisci cos'era. Era la nostalgia del futuro che non verrà, la consapevolezza improvvisa che mancando il futuro perfino il presente è illusione e solo il passato è esistenza».


    «Siamo stati bene qui. Siamo stati vivi».

    (Alekos Panagulis.)


    «Sei stata una buona compagna. La sola compagna possibile».

    (Alekos Panagulis.)


    «La morte è una ladra che non si presenta mai di sorpresa, ecco quel che ho cercato di dirti finora. La morte si annuncia con una specie di profumo, percezioni impalpabili, silenziosi rumori. La morte si sente arrivare».


    «Non v'è eroe vivo che valga un eroe morto».


    «Tuttavia per un giorno, quel giorno che conta, che riscatta, che viene magari quando non si spera più, e venendo lascia nell'aria un microscopico seme da cui sboccerà un fiore, lo capì anche il gregge che bela dentro il suo fiume di lana. Non più gregge, quel giorno, ma piovra che strozza e ruggisce zi, zi, zi! Alekos zi, zi, zi! Alekos vive, vive, vive! Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote coperto di ori e collane, zaffiri smeraldi rubini, simbolo d'ogni potere presente e passato e futuro, ruzzolava grottesco, rompendo il cristallo, calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo».

    libro di: Oriana Fallaci

     
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