le città invisibili

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  1. pïnkman
     
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    «Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone».


    «L'imperatore è colui che è straniero a ciascuno dei suoi sudditi e solo attraverso occhi e orecchi stranieri l'impero poteva manifestare la sua esistenza a Kublai».


    «Il giorno in cui conoscerò tutti gli emblemi,» chiese a Marco, «riuscirò a possedere il mio impero, finalmente?».
    E il veneziano: «Sire, non lo credere: quel giorno sarai tu stesso emblema tra gli emblemi».


    «I futuri non realizzati sono solo rami del passato: rami secchi».


    «L'altrove è uno specchio in negativo. Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà».


    «Le descrizioni di città visitate da Marco Polo avevano questa dote: che ci si poteva girare in mezzo col pensiero, perdercisi, fermarsi a prendere il fresco, o scappare via di corsa».


    «Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto. Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte della città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World. Dice:- Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente».


    «Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano... Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco».


    «L'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose».


    «L'ordine degli dei è proprio quello che si rispecchia nella città dei mostri».


    Marco Polo descrive un ponte, pietra per pietra.
    «Ma qual è la pietra che sostiene il ponte?». chiede Kublai Kan.
    «Il ponte non è sostenuto da questa o quella pietra,». – risponde Marco, «ma dalla linea dell'arco che esse formano».
    Kublai Kan rimane silenzioso, riflettendo.
    Poi soggiunge: «Perché mi parli delle pietre? È solo dell'arco che mi importa».
    Polo risponde: «Senza pietre non c'è arco».


    «Non c'è linguaggio senza inganno».


    «Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone».


    «Ogni volta che si entra nella piazza ci si trova in mezzo ad un dialogo».


    «È delle città come dei sogni: tutto l'immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus che nasconde un desiderio oppure il suo rovescio, una paura. Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure».


    «D'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».


    «Gli antichi costruirono Valdrada sulle rive di un lago con case, tutte verande una sopra l'altra e vie alte che affacciano sull'acqua i parapetti a balaustra. Così il viaggiatore vede arrivando due città: una diritta sopra il lago e una riflessa capovolta. Non esiste o avviene cosa nell'una Valdrada che l'altra Valdrada non ripeta, perché la città fu costruita in modo che ogni suo punto fosse riflesso dal suo specchio, e la Valdrada giù nell'acqua contiene non solo tutte le scanalature e gli sbalzi delle facciate che s'elevano sopra il lago ma anche l'interno delle stanze con i soffitti e i pavimenti, la prospettiva dei corridoi, gli specchi degli armadi».


    «Le due Valdrade vivono l'una per l'altra, guardandosi negli occhi di continuo, ma non si amano».


    «Perchè indugi in malinconie inessenziali?».


    «Per distinguere le qualità delle altre, devo partire da una prima città che resta implicita. Per me è Venezia».


    «Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano. Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una sola volta, se ne parlo. O forse, parlando d'altre città, l'ho già perduta a poco a poco».


    «Viaggiando ci s'accorge che le differenze si perdono: ogni città va somigliando a tutte le città, i luoghi si scambiano forma ordine distanze, un pulviscolo informe invade i continenti».


    «La menzogna non è nel discorso, è nelle cose».


    «Per tutti presto o tardi viene il giorno in cui abbassiamo lo sguardo lungo i tubi delle grondaie e non riusciamo più a staccarlo dal selciato».


    «Chi comanda al racconto non è la voce: è l'orecchio».


    Chiese a Marco Kublai: «Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quale futuro ci spingono i venti propizi».
    «Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell'approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s'apre nel bel mezzo d'un paesaggio incongruo un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s'incontrano nel viavai, per pensare che da lì metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d'istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora più rada ora più densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t'ho detto».


    «Si arriva a un momento nella vita in cui tra la gente che si è conosciuta i morti sono più dei vivi. E la mente si rifiuta d'accettare altre fisionomie, altre espressioni: su tutte le facce nuove che incontra, imprime i vecchi calchi, per ognuna trova la maschera che s'adatta di più».


    «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

    libro di: Italo Calvino





    asko

     
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0 replies since 11/1/2015, 21:14   350 views
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